Istrionico, esuberante, eclettico chansonnier. Non esiste definizione ridondante quando si prova a raccontare Giorgio Conte. A torto o a ragione, ogni maglia descrittiva sembra limitante, restrittiva. A sbaragliare è la sua leggera profondità, lo sguardo sornione mentre a sottovoce ti fa notare che hai le mani fredde. Allora, prontamente ti sciogli dalla sua stretta gentile, ma quella di essere libera è solo un’illusione. Sono gli occhi e la voce a tessere tutt’attorno a te una maglia di complessità. E dalla complessità è davvero difficile prendere le distanze.

Domenica 6 agosto, Paspardo ha cambiato nome. L’ha fatto nel giro di pochi secondi, passando da un Gaspardo fino all’ironico Passe-partout, la parola chiave che apre ogni porta. Anche quella più piccola, anche la meno propensa a farsi accarezzare dai toni bassi. Da quell’incedere di parole – che per Giorgio sono più che “semplici strumenti del mestiere” dal suono simile a quello che fanno le pentole. Quando te le dimentichi sul fuoco e loro vanno avanti a sobbollire. E quando, con profondo stupore, le scoperchi, sai per certo che ad aspettarti ci sarà una sorpresa a cavallo tra la trovata culinaria e la più fervida fantasia gastronomica.

Cibo. Siamo arrivati così al cibo. Argomento che solitamente rallegra i commensali. Ma a questo banchetto musicale – dalla frittata con l’erba di San Pietro al leggendario tiramisù, ogni cosa ha allo stesso tempo sapori diversi. C’è il gusto amaro delle storie d’amore che si sfaldano appena sotto il palato. Il pizzicore liquoroso delle tentazioni femminili. Il languore nostalgico delle occasioni andate e di quello strascicato congiuntivo: “se tu fossi qui.”

C’è tutto, nella musica di Giorgio Conte. E non c’è nulla che manchi tale da indurre ad invidiare altri cantautori. Nemmeno quando oltre al gusto per lo spartito irriverente condividono lo stesso sangue, il medesimo latte materno. Soprattutto, asciugatosi il mento leggermente unto con il tovagliolo, il mangione ascoltatore sente risalire piano dal ventre satollo una nuova sensazione.

È la capacità più ricercata e allo stesso tempo snobbata di tutte. Quel retrogusto sopraffino che solo i veri intenditori sanno apprezzare. Il pregio genuino di trasformare ogni sapore con il condimento speziato dell’ironia. Forse l’unica vera forza, insieme all’amore, capace di prendere tra le mani l’acqua della vita quando questa si fa insipida, oppure – peggio – avvelenata dall’illusione – e tramutarla in ottimo vino.

Ecco cosa ci ha servito in otri pieni e boccali generosi domenica sera Giorgio Conte. Un rosso sincero, forse un po’ d’annata ma di sicuro carico d’ogni sorta di percezione. Intenso e rubino, capace di resuscitare in noi tutti la prodigiosa attitudine a farci una risata. Non forzata, ma spontanea. Costruita forse dal panegirico delle parole, dalle formule discorsive e dalle coreografie musicali. Ma senz’altro e indissolubilmente onesta. Schietta. Gorgogliante e serena.

Che non si possa davvero capire la vita – come il titolo stesso dello spettacolo suggeriva – è una gran bella verità. Ma la possiamo prendere per mano, lasciando che ci accompagni come solo una vera amica sa fare. Per le vie del mondo, per le strade tracciate dagli accordi di una chitarra. Per i gesti di ogni giorno, che con il fermoimmagine tipico che solo le grandi penne sanno davvero azzardare, possono fare il miracolo più bello di tutti: mostrarci il luminoso spiraglio anche dove regna sovrana l’ombra dell’eterno disappunto.

Sembra magia e invece è solo musica. Note e parole sapientemente orchestrate da un grande della nostra cultura canora. Un cantautore ottuagenario che, con la forza dell’esperienza fermentata nel tempo, sa elargire lezioni senza chiedere nulla in cambio. Per questo a noi sembra davvero uno sciamano. Anche se a lui questa definizione – forse un po’ come tutte le definizioni, del resto – pare scomoda. Più che stretta, in questo caso gli suona terrificante.

“Uno sciamano mi fa anche un po’ paura. Mi ricorda qualcuno che può fare i dispetti…” confessa strizzando leggermente gli occhi. Più per vezzo espressivo che per volontà di fare l’occhiolino all’inverosimile. Ma già così, a chi lo ascolta sembra se non di averlo inquadrato meglio, almeno di averne colto un po’ più a fondo l’essenza. Che resta a tutti gli effetti ineffabile, sinceramente sorniona e ancora tanto, tanto complessa. Eppure, senza ombra di dubbio, struggente. Audace, a tratti malinconica… ma spietatamente bellissima.

 

Sandra Simonetti