Di un’intervista, un po’ come di una canzone, dovremmo poter ricordare anche quello che non vediamo, quello che non sentiamo. Ciò che resta fuori dal raggio di captazione del microfono, dalla deliberata irruenza di una telecamera. Catalogabile come un errore, oppure come la peculiarità di un ricordo, ciò che tagliamo di un’intervista ha sempre un valore. Forse non ce l’ha ai fini tecnici del montaggio, o del racconto di quanto siamo determinati a restituire con quel lavoro. Ma ha senso serbarne almeno il ricordo, da qualche parte nel nostro inconscio. Nell’archivio delle nostre vulnerabilità.

Anche perché “almeno ce lo ricorderemo”. Forse perché di fronte all’errore restiamo colpiti, più che dalla capacità di reazione, dalle modalità in cui s’interviene. Quando raggiungiamo Paolo in hotel per intervistarlo, c’è già l’altro spettacolo in corso. Il recital “I cannoni di Guspessa” srotola il canovaccio di fronte alla piazza gremita di Edolo. Noi cerchiamo momentanea privacy, riflessione e raccoglimento rispetto allo svolgersi dell’evento. Scrivo “noi” per abitudine, perché con il Festival si lavora a livello di squadra e perché fino a un attimo prima mi ero unita al gruppo dei giornalisti. Ma in realtà dovrei usare la prima persona singolare, perché in quel momento sono io, sola, ad incamminarmi verso un grande artista.

Io, con il mio telefono, il registratore e una curiosità che mi martella nel petto. In maniera sommessa, certo, ma pur sempre martellante. Un po’ come il tamburellare della pioggia ai primi scrosci di un temporale estivo. Non sai mai bene cosa chiedere a questi artisti prima di incontrarli. Ti prepari, ma non vuoi prepararti troppo. Ti concentri sul momento per provare ad aprirti alle sfumature, ma allo stesso tempo il  tuo campo concettuale si restringe a quello di una sardina in scatola. “Lui com’è?” Chiedo al gestore dell’hotel mentre in ascensore mi scorta al piano di sopra. Soprattutto, ho l’eterno timore di disturbare. La stampa ufficiale è già passata, il momento mediatico ha già raccolto la triplice testimonianza. Sarebbe giusto lasciare che si prepari con calma, penso prima che le porte dell’ascensore si aprano. Dopotutto, ciò che andrebbe fatto prima di un concerto è ritrovare sé stessi e liberare la mente, suppongo.

L’ascensore è arrivato, usciamo. A questo punto, mi piacerebbe poter scrivere di un effetto sliding door. Di un colpo di scena, di qualcosa di forte. O anche di un semplice “Ora no, non ho più tempo” e di una me che se ne torna al palco con la coda tra le gambe e un rassegnato senso di sicurezza. Ma non è così. Ad accogliermi, c’è un bussare alla porta e poi un uomo elegante, camicia chiara, pantaloni scuri che, pur non sapendo di me da scaletta, si lascia intervistare. Qui il gestore scende, libera la scena. Ci sono le scale, un paio di porte, degli gnomi di pezza che – come per incanto – si smaterializzano. C’è un divanetto in stile vittoriano: l’atmosfera intima e perfetta per cominciare un’intervista che ora mi fa un po’ meno paura. Cosa mai potrebbe andare storto?

Apro quieta e sincera, con una frase che poi taglierò: “Io sono molto curiosa di una serie di cose…” Paolo giocherella con il primo bottone della camicia, tradendo il mio stesso, leggero nervosismo. Risponde pronto: “Ecco, eh già… cominciamo bene!” Ho paura a chiedergli del padre, dopotutto, tutti gli staranno chiedendo e gli avranno già chiesto del padre. Da mesi, da anni, da sempre. Prendo una pausa con il respiro e nel frattempo lui mi fissa. I suoi occhi sembrano più grandi, lo sguardo è più limpido. Ora al nervosismo iniziale si sovrappone un velo di gentilezza, di discreta empatia. Rivedendo il filmato mi accorgo che è lui a cercare di mettere a mio agio me. Semplicemente con la presenza, la voce pacata, la postura regale. L’essere lì pronto all’ennesimo interrogatorio con la speranza calcolata che non si tratti di una mitragliata di punti interrogativi, ma di una chiacchierata. Lo spero tanto anch’io, adesso più che mai. Tra le domande che mi sono preparata scelgo quella che apre la via alla narrazione.

Da lì in poi, la nostra è davvero una chiacchierata incentrata sulla capacità di raccontare. Sugli strumenti, i valori, le modalità di costruire storie e di ricostruire presenze. La figura di Enzo è oggettivamente presente. Emerge dalla necessità di non fare cadere nell’oblio il tempo che è stato e l’importanza di quel tempo. Si palesa tra le righe, in maniera nemmeno troppo velata. Paolo è consapevole che nel repertorio di un’intervista prima di uno spettacolo fortemente dedicato a suo padre e al libro “Ecco tutto qui”, scritto con il giornalista Enzo Gentile, la trama da percorrere sia già un po’ tracciata. Ma quando dico che la presenza di Jannacci senior è reale, intendo proprio dire che sembra del tutto oggettiva, perfino palpabile.

Stiamo parlando di lui, di quanto giusto sia ricordare la sua opera, quando improvvisamente va via la luce. Paolo si gira verso di me. Mentre parla ha il vezzo d’inseguire il filo dei pensieri anche con lo sguardo. Mi chiede – abbozzando un sorriso – che cosa ho fatto. E in quel momento, senza volerlo e senza saperlo, siamo accomunati dal timore che quella presenza abbia deciso di farsi viva giocando qualche scherzetto tecnico. Ma dura poco, il tempo di un paio di secondi, per realizzare che siamo pur sempre in un corridoio e che la luce si sa, in ambienti di servizio è spesso una luce a tempo. Me ne sarei dovuta accorgere prima, mi mordo le labbra. Cerco il sensore e faccio ripartire il cinema, con un evidente senso di imbarazzo.

Imbarazzo che Paolo, rendendo evidenti la gentilezza e l’empatia di prima, riesce a sciogliere con un “Però non abbiamo detto niente. Quindi papà, mi raccomando, non ti arrabbiare!” E poi parte a ridere. Ride impiegando ogni muscolo del volto, aprendosi e restringendosi in contemporanea in modo totale ad una candida risata. Un’esplosione di simpatia che resta pur sempre elegante, sommessa. Senza scoppiare in baruffe di sghinazzi. Il volto s’illumina giocosamente, come se dietro al portamento distinto e distaccato dell’artista giù dal palco, la diga del riserbo fosse improvvisamente collassata. Per lasciare spazio a una natura spontanea, fanciullesca, mi verrebbe da dire abituata a smorzare gli animi, a smussare gli angoli. Lo trovo un pregio bellissimo. Un modo stupendo per riprendere il giro di confidenze.

La luce se ne andrà un’altra volta, perché di cose da dire ce ne sono troppe, anche per il tempo del pianerottolo e delle sue scale. Paolo si alzerà risoluto e con fare deciso si piazzerà davanti al sensore, semplificandomi il lavoro senza che glielo debba chiedere. Una premura dettata dall’esigenza del saper trovare soluzioni sempre, anche quando non sarebbe richiesto. Non gli dirò che poi, ad un certo punto, sarà il telefono ad avere problemi. L’intervista finita, tagliata, cucita e ricucita, ricorderà la prassi di un intervento a cuore aperto, tanto per stare a tema. Ciò che ne uscirà sarà qualcosa che funziona, e questo è quel che conta.

A me però, che un po’ commossa ed emozionata per quel giro di accortezze limpide e spontanee imboccherò le scale dopo qualche minuto, sembrerà tutto bellissimo. Tecnicamente complesso, da volersi mangiare le dita fino ai polsi, certo. Ma perfetto proprio in quanto umano, autentico. Per quella crepa sempre più larga nella diga della perfezione. Il sorriso, la voglia di scherzare, l’approfondimento sulla narrazione. E la gentilezza a tratti composta, a tratti spensierata, che, galleggiando fuori da quella fessura, si prenderà di diritto il primo posto sul podio delle mie sensazioni. Nella classifica dei miei ricordi.

 

 

Sandra Simonetti